Lost in the family

Standard

Appunti statistici e screening della salute della ex “cellula base” della società. Ad uso del Sinodo, ma non solo

La chiesa di Francesco si prepara al Sinodo sulla famiglia. Lo fa partendo dalla precisa consapevolezza della criticità della situazione al riguardo. “Si profilano oggi problematiche inedite fino a pochi anni fa, dalla diffusione delle coppie di fatto, che non accedono al matrimonio e a volte ne escludono l’idea, alle unioni fra persone dello stesso sesso, cui non di rado è consentita l’adozione di figli”, si legge proprio all’inizio del documento preparatorio. Che poi continua a elencare le questioni, fino ad arrivare al “diffondersi del fenomeno delle madri surrogate (utero in affitto)”, per infine sottolineare, l’indebolimento o l’abbandono della fede nella “sacramentalità del matrimonio”. Sarà un bell’impegno, questo del Sinodo. La “tenerezza per le persone ferite” potrebbe non bastare come bussola per trovare la rotta da seguire tra la moltiplicazione delle concezioni di famiglia da un lato – ciascuno sembra averne una propria, a suo uso e consumo – e la profonda crisi della famiglia tradizionale, quella formata dalla coppia eterosessuale più i figli, dall’altro. Perché se non tiene questa famiglia hai un bell’allargare il perimetro delle forme di famiglia, di comprenderle umanamente e di andare loro “pastoralmente” incontro. Se non tiene questa forma di famiglia non c’è futuro possibile per la famiglia nel suo insieme, nella sua totalità. E questa forma di famiglia non tiene, ecco la realtà che sta di fronte all’Italia e alla stessa Europa. E, detto con tutto il dovuto rispetto, questa più stringente e dura realtà nel documento preparatorio dei vescovi sulla famiglia non ha la centralità che ci si aspetterebbe. Cosicché si fatica a capire, leggendolo, che da questa fase storica il soggetto sociale che sta uscendo più pesantemente sconfitto non è genericamente la famiglia, bensì la famiglia tradizionale, quella stessa su cui si regge la società e che ne consente la sopravvivenza nel tempo. La preoccupazione pastorale per le nuove e diverse forme di famiglia finisce per nascondere il fatto che proprio queste forme rappresentano l’aspetto più evidente del cedimento, del vero e proprio “smottamento”, della famiglia tradizionale.
Viviamo, oggi, nell’evoluto occidente, in società a bassa intensità di famiglia. Società, come quella italiana, che ancora quattro decenni fa erano ad alta, se non addirittura ad altissima, densità di famiglia sono precipitate drammaticamente nell’inconsistenza della famiglia. Caduta verificatasi sotto gli occhi di tutti eppure nel disinteresse pressoché generale, nel silenzio della politica, nella notarile azione dei governi, nella malcelata soddisfazione del mondo della cultura, che da sempre, nella sua maggioranza, attribuisce alla famiglia tradizionale un carattere conservatore, una vocazione esclusivista e prevaricatrice. Così è potuto succedere, per esempio in Italia, che da un valore di 4,5 componenti a famiglia di un secolo fa si scivolasse lentamente a 4 negli anni Cinquanta, più sveltamente a 3 negli Ottanta e di questo passo si marciasse spediti verso i 2 del prossimo decennio – se non già della fine di questo, visto che la media italiana attuale è di 2,3 componenti a famiglia. Il divario – attenzione – tra l’inizio e la fine del periodo considerato è ben più cospicuo di quanto non dicano queste cifre. Infatti, l’universo delle famiglie è in certo qual senso obbligatoriamente formato da almeno due persone, se si eccettuano le famiglie unipersonali formate da una sola persona (a regola non famiglie, famiglie soltanto in forza della statistica), cosicché un calcolo più preciso ci direbbe che mentre si avevano almeno tre componenti oltre la coppia cent’anni fa se ne ha uno scarso quest’oggi. L’inabissamento è stato fermato dalla terra subacquea, per dir così. La famiglia sta infatti avviandosi alla sua soglia d’inconsistenza, oltre la quale non può sprofondare. Difficile dire, per esempio, dove possano ancora finire le famiglie in Liguria o nella provincia di Trieste, essendo già scese, in quei paraggi, sotto la soglia di due componenti in media a famiglia. Una soglia che ci suggerisce come da quelle parti la famiglia intesa come la coppia più i figli sia di fatto se non estinta in via di rapida, e sicura, stando così le cose, estinzione.

Il documento preparatorio del Sinodo sulla famiglia non si interroga su come questo sia potuto succedere, giacché non prende il via da una riflessione sullo stato della famiglia tradizionale – evidentemente dandone per acclarata la crisi. Punta a conoscere “oltre” la famiglia tradizionale; muove in direzione di ciò che di nuovo in termini di famiglia e coppia bussa alla porta della chiesa o, almeno, manifesta a essa la sua presenza. E’ una scelta insieme coraggiosa e rischiosa. Il coraggio è perfino inutile sottolinearlo, il rischio è che anche la più approfondita riflessione sulla famiglia che possa derivarne si muova e agisca ai margini del territorio dove giace il corpaccione spiaggiato della famiglia tradizionale, incapace di penetrarvi dentro per provarsi a rianimarlo.

Quella italiana è diventata in un batter d’occhio una delle società a più bassa densità di famiglia del mondo. Quando si parla di “densità di famiglia” non si intende affatto la “quantità” delle famiglie, giacché se si dovesse giudicare dal numero delle famiglie stimate ad oggi in Italia (26 milioni) si sarebbe portati piuttosto a concludere con un giudizio del tutto opposto, di ricchezza di famiglie e non di povertà di famiglie, essendo che il numero delle famiglie non fa che crescere da un anno all’altro. Il paradosso è giusto questo, che crescono più le famiglie degli abitanti. Paradosso solo apparente, sia chiaro, nient’affatto logico-statistico e meno ancora culturale in senso lato. Il fatto è che le famiglie italiane non soltanto non si formano, e non formandosi determinano l’aumento di quelle unipersonali, di una sola persona, costituite da celibi o nubili, ma si scindono, per separazioni e divorzi, e si assottigliano in conseguenza del sopravvenire di stati di vedovanza collegati all’incessante aumento della speranza di vita e del venir meno dei figli. Insomma, una riduzione continua della famiglia ai minimi termini, un suo continuo annacquamento in quanto famiglia, che non contraddice il suo moltiplicarsi ma ne rappresenta, piuttosto, l’altra faccia. Le famiglie in Italia si moltiplicano perché la “famiglia italiana” si assottiglia, si indebolisce, si divide e frammenta, fino a diventare atomo più che cellula della società, componente minima ben più, ormai, che base vitale della stessa. Che dire infatti di una società dove le famiglie sono al 30 per cento unipersonali, fatte cioè di una sola persona, e dunque non famiglie? E dove nel restante 70 per cento delle famiglie le coppie con figli rappresentano poco più della metà? E dove tra le coppie con figli la tipologia largamente prevalente è quella della coppia con un solo figlio? Che dire se non che quella società, la società italiana, è a terribilmente bassa intensità di famiglia?

I termini della questione famiglia e il senso stesso dell’essere famiglia sono dunque radicalmente mutati tra ieri, non più di quattro decenni fa, e oggi. Sotto la spinta di quali fattori s’è compiuta una trasformazione così formidabile da non consentire, quasi, di poter leggere il presente alla luce del passato? Com’è stato che in un lasso tanto breve di tempo la famiglia italiana si sia ridotta a così poca cosa? E a chi pensasse che poco importa uno stato di salute della famiglia, complessivamente intesa, piuttosto che un altro, viene facile obiettare che, statistiche alla mano. Il faticoso Dopoguerra, la difficile ricostruzione, la trasformazione dell’economia italiana da agricola a industriale, il miracolo economico sono state tutte sfide che l’Italia ha affrontato e vinto, nel quarto di secolo tra la fine della guerra e quella degli anni Sessanta, servendosi di uno strumento, o meglio ancora facendo leva su uno strumento, che potrebbe apparire assai improprio, e che si rivela invece la sua vera arma vincente: quella che oggi definiamo, appunto, come famiglia tradizionale, la famiglia formata dalla coppia eterosessuale più i figli. Ben più del ventennio fascista, quando l’imparità della donna nel confronto con l’uomo, oltretutto, era così marcata da rendere la famiglia inadeguata alla crescita e al progresso, è quel quarto di secolo a rappresentare il trionfo della famiglia, un trionfo che trascina con sé l’Italia intera. E che ci fa intuire come nelle difficoltà di oggi sia proprio quel carburante a mancare, tra le altre condizioni, alla nostra capacità di ripresa.

Quattro fattori hanno cambiato le carte in tavola, scavato un fossato tra ieri e oggi. L’introduzione del divorzio. L’istruzione universitaria di massa, della quale hanno beneficiato e stanno beneficiando, in Italia e non solo, ben più le femmine dei maschi. L’alto, e sempre crescente, livello di terziarizzazione dell’economia. E, più italiano di tutti, il basso grado di mobilità sociale. Sono questi i fattori che hanno cambiato il volto della famiglia e trasformato quella italiana da una società ad alta a una società a bassa intensità di famiglia. Sia chiaro, questo non intende essere un giudizio di valore su tali fattori, ma soltanto la pura e semplice constatazione dei loro effetti sulla famiglia tradizionale e, per il ruolo decisivo che essa riveste, sulla famiglia tout court e sulla società.

Il divorzio relativizza il matrimonio, lo rende interscambiabile e sostituibile con altre forme di legami a minor tasso di coinvolgimento e responsabilità dei singoli. In questo senso rappresenta il fattore che più e prima degli altri si ripercuote sulla forza interna della famiglia, indebolendola. La lunga e spesso perfino infruttuosa, allorquando non si conclude con l’acquisizione della laurea, permanenza nelle università italiane, d’altro canto, protrae di per sé una fase di relativa autonomia e, tra virgolette, di “spensierata giovinezza” (che mica è tanto spensierata, oggi come oggi) dei giovani adulti che sempre più ne sposta nel “dopo”, un dopo indistinto, la prospettiva della famiglia. Quanto al grado sempre più elevato di terziarizzazione dell’economia, non si riuscirà mai a immaginare un territorio caratterizzato da una forte presenza dell’industria pesante, più ancora se di base, senza la forte dominanza della famiglia tradizionale. Ma un territorio a grande prevalenza di terziario moderno centrato, poniamo, sui servizi dell’informazione e della comunicazione, indubbiamente sì, è perfino più immaginabile “senza” che non “con” la prevalenza della famiglia tradizionale. Il basso grado di mobilità sociale, infine, mortificando le aspettative, non invoglia certo a metter su famiglia. La famiglia mira, per sua stessa essenza, a sospingere in avanti prima ancora dei singoli le generazioni e dunque, per capirci, più i figli dei genitori, perché questo è il motore che muove l’intera società, e non soltanto le famiglie, che le prospettive dei figli possano risultare migliori e più raggiungibili di quelle dei padri. Se si verifica l’inverso la famiglia perde, parlando in termini generali, la necessaria dinamicità, la sua azione ripiega in se stessa, rischiando la sterilità, l’inconcludenza.

Ora, nessuno può pensare di tornare indietro sul divorzio, o di fermare il grado di terziarizzazione dell’economia. Ma sull’istruzione universitaria di massa e il grado di mobilità sociale si può, e si deve, intervenire. E questo del tutto indipendentemente da quel che si pensa della famiglia, tradizionale e non. Che si esca dall’università a 25-27 anni, senza ancora avere avuto alcun rapporto col mondo del lavoro e cominciando soltanto in quel momento a guardarsi in giro, peraltro con lo spaesamento di chi ha vissuto nella separazione più netta con quel mondo fino ad allora, è la più vistosa, costosa e sotto tutti gli aspetti pregiudizievole delle contraddizioni della società italiana d’oggi. Spaventa che una problematica a tal punto decisiva per il futuro di questa società passi sostanzialmente sotto silenzio o sia lasciata agli “uzzoli” di riforma di quanti nel tempo hanno contribuito alla sua così inappropriata configurazione attuale. Spaventa che professioni e mestieri, anche in conseguenza dell’inappropriatezza di quella configurazione, siano tornati a passare di generazione in generazione come nei tempi passati. Il figlio del medico fa il medico, dell’avvocato l’avvocato, dell’ingegnere l’ingegnere. Dell’operaio l’operaio, dell’agricoltore l’agricoltore. Del disoccupato il disoccupato, anche. Così funziona la società italiana, sempre sull’onda di cicli di studio, e modalità di accesso e di percorrenza degli stessi, che inesorabilmente sacrifica il merito per premiare piuttosto lo spirito acritico e gregario dello studente, spinto più che a trovare una sua dimensione autentica con l’ausilio della scuola e degli studi a darsene, se non proprio a fingerne, una in chiave con quella che la scuola, nell’arco dei suoi ordini e livelli, si aspetta da lui. Comincia dunque dallo studio la costruzione di personalità poco intraprendenti e dinamiche, poco propense al rischio e all’inventiva, portate invece a ricercare nicchie di sicurezza e stabilità dentro le quali accoccolarsi senza troppi pensieri e, semmai, per poter pensare ad altro. C’è poco da scandalizzarsi per la fuga dei cervelli. Tutto l’insieme della Pubblica amministrazione e del settore pubblico, ricalcato su quello dell’istruzione, chiede non già personale capace di cambiare ma di assicurare l’anonima e inefficiente prosecuzione di sé. Si vedano i concorsi pubblici, quando ci sono. Solo puri miracoli, per definizione eccezionali, possono consentire che i suddetti “cervelli”, vincendoli, siano trattenuti dal fuggire lontano.

Riforma degli ordini di studio e del rapporto tra università e mondo del lavoro per un lato, nuova filosofia e regole per la pubblica amministrazione e il settore pubblico a tutti i livelli, per l’altro. Non si può non agire con urgenza e radicalità – urgenza e radicalità – su questi due versanti per rimettere in moto al tempo stesso la famiglia e la società, entrambe sclerotizzate.

Per la verità il giudizio sulla famiglia, lungi dalla sclerotizzazione, è semmai quello di effervescenza. C’è una larga opinione, specialmente bene istruita e acculturata, specialmente di tendenze di sinistra, radicali e liberali, che vede, al contrario, una grande vivacità nell’universo delle famiglie d’oggigiorno. Si confonde, evidentemente, la possibilità d’inventare, per così dire, la propria famiglia, con la reale diffusione, consistenza, saldezza delle forme di famiglia. Ma quando si è accennato alla famiglia tradizionale come quella formata dalla coppia eterosessuale più i figli già si sono considerate e conteggiate, per esempio, le coppie di fatto, non sposate. Cosicché, è nonostante l’apporto sempre più massiccio di coppie e famiglie di fatto che l’universo delle famiglie marcia spedito verso l’inconsistenza dimostrata dalle cifre. E questo perché non c’è soltanto la scelta del non matrimonio, come nelle coppie di fatto, che ha preso piede, ma anche quella del celibato/nubilato e quella ancor più estrema dei non figli da parte di coppie che pensano di realizzarsi al di fuori della discendenza. Tutto si lega, e cresce, delle tendenze che contrastano non già il numero delle famiglie ma l’intensità, nel senso chiarito, della famiglia nella società italiana. Al punto da porci di fronte al dubbio se non sia la famiglia annacquata, atomizzata d’oggi quella che meglio risponde ai caratteri e alle esigenze di futuro e di progresso della società attuale. Non mi sentirei di escludere del tutto una tale possibilità. Mi sentirei però di escludere che ci possa essere un futuro e un progresso segnati da equilibrio sociale e possibilità di realizzazione delle aspirazioni più profonde degli individui e delle comunità se finirà per imporsi una concezione, e un modello, di famiglia ridotta ai minimi termini, chiusa, puramente difensiva, che percepisce il resto da sé come ostile, qual è quella che si staglia all’orizzonte avendone, sembra, in società come la nostra, già conquistato un bel pezzo.

FOGLIO QUOTIDIANO
di Roberto Volpi

Pubblicato tramite DraftCraft app

Bocche cucite e ipocriti dell’accoglienza

Standard

 

di Arturo Diaconale

24 dicembre 2013 EDITORIALI

 

Il problema non è la legge sullo jus soli, che non si realizza. O la Bossi-Fini che non si sostituisce con un provvedimento più adeguato ai tempi ed al passaggio dall’immigrazione per ragioni economiche alla fuga in Europa dalle guerre civili della sponda Sud del Mediterraneo e dell’Africa. Il vero problema è quello dell’ipocrisia nazionale. Quella che si mobilita per le tragedie che si verificano in mare e che riguardano i profughi che scappano dagli orrori delle guerre in atto nelle proprie nazioni. E lo fa perché la visibilità mediatica internazionale che garantisce la lacrima politicamente corretta sparsa sui corpi dei naufraghi non è assicurata da nessun altra manifestazione di buonismo a buon mercato. Ma che diventa spaventosamente evidente quando quelli stessi che si mobilitano sulle tragedie in mare rimangono sostanzialmente indifferenti alle tragedie che aspettano sulla terra dell’accoglienza gli stessi naufraghi sfuggiti alle insidie del Canale di Sicilia.

Non sono una testimonianza di attenzione e di consapevolezza delle condizioni di vita dei sopravvissuti alle traversate mediterranee, infatti, le manifestazioni di sdegno e condanna di vicende come la disinfestazione a cielo aperto dei migranti di Lampedusa o la protesta con automutilazione di quelli del Centro di accoglienza di Ponte Galeria. Rappresentano solo la riprova dell’ipocrisia dell’ormai insopportabile esercito di professionisti dell’accoglienza che sulla tragedia dei profughi ci campa e ci costruisce folgoranti carriere politiche. Questo esercito di ipocriti, tanto pronto alla lacrima mediatica per i naufraghi, appare del tutto indifferente di fronte alla circostanza che alla salvezza dal mare segue l’inferno di una carcerazione preventiva che viene scontata per mesi e mesi in centri di accoglienza che di fatto sono delle strutture carcerarie a tutti gli effetti. Qualcuno, per la verità, si batte per migliorare le condizioni di vita in quelli che sono degli autentici campi di concentramento.

Qualche altro ne chiede direttamente la chiusura e l’abolizione. Ma chi non è un ipocrita e non pensa che il problema possa essere risolto eliminando semplicemente i centri di accoglienza, deve denunciare lo scandalo di un’accoglienza che si trasforma in detenzione ingiustificata. E, soprattutto, deve ricordare con forza che la carcerazione preventiva a cui vengono sottoposti per mesi e mesi i naufraghi strappati dalle onde è la stessa che riempie le carceri nazionali di indagati in attesa di un giudizio che tarda sempre ad arrivare. “La Marcia di Natale”, che su iniziativa dei Radicali italiani si svolge per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni inumane delle carceri, rappresenta un’ottima occasione per compiere queste denunce.

E sottolineare la passività ipocrita di chi non riconosce che carceri e centri di accoglienza sono aspetti diversi di un solo fenomeno di gravissima violazione dei diritti umani. L’accoglienza a metà, quella che si ferma al mare e non prosegue sulla terra, che viene fatta solo per acquisire visibilità ed inserisce automaticamente i profughi nel sistema carcerario, è moralmente e praticamente peggiore di qualsiasi misura di respingimento. Perché rappresenta una macchia sul grado di civiltà del nostro Paese e costituisce un modo insulso di bruciare risorse pubbliche!

L’Opinione

Putin il vero antagonista del nostro pensiero unico

Standard

 

La Russia sta assumendo un ruolo geo-politico sempre più importante e, bisogna ammetterlo, il Presidente Putin sembra essere il vero antagonista del pensiero unico occidentale. Nella grande conferenza stampa di fine anno, davanti a circa 1300 giornalisti da tutto il mondo, è intervenuto a tutto campo per ben 4 ore.

Non è più l’URSS, ma è una grande Russia quella propone Putin, un interlocutore con cui tutti devono fare i conti, soprattutto per i nuovi equilibri mondiali che vedono un occidente in crisi economica (e non solo) e un estremo oriente in continua ascesa. La Russia è lì, in mezzo tra est e ovest; la Russia è europea, ma anche asiatica. Molti elementi lasciano pensare che propria l’ex URSS potrebbe rivelarsi il crocevia del futuro del pianeta.

Durante la conferenza stampa Putin ha innanzitutto escluso l’intervento militare in Ucraina, ma ha sottolineato che “le proteste a Kiev sono provocate dalla lotta politica in Ucraina, non dalla questione di sottoscrivere o no l’accordo d’associazione con l’UE”. “Quelli che ora attivamente promuovono le idee legate alla sottoscrizione dell’accordo con l’UE – ha continuato il Presidente – recentemente erano al timone dell’Ucraina. Perché prima non hanno fatto ciò per cui lottano ora?”

La domanda sospesa è carica di significati, in Ucraina non si giocano soltanto interessi di tipo economico, ma anche militari e di equilibri geo-politici. Molti manifestanti percepiscono l’Europa come una specie di paese in cui scorrono “latte e miele”, ma sappiamo bene che la realtà è molto diversa. Le conseguenze di un eventuale entrata nell’UE non sono così scontate per il benessere degli ucraini, anzi. Eppure in Ucraina scendono in piazza politici occidentali che arrivano fin dagli Stati Uniti. Come mai? Questo è quello che si chiede anche Putin, il quale, tra l’altro, sa che dal punto di vista culturale e storico le radici del popolo ucraino sono russe e soltanto russe.

Oltre alla questione ucraina Putin ha ribadito le sue posizioni su molti problemi aperti nello scacchiere internazionale. La Russia ha apportato “un contributo notevole nella risoluzione degli acuti problemi internazionali”, tra cui quello delle armi chimiche in Siria e il problema nucleare iraniano. Vladimir Putin ritiene che le nuove sanzioni contro l’Iran, dichiarate dal Congresso USA, sono controproducenti: “Non daranno niente di buono dal punto di vista degli accordi definitivi sulla risoluzione del problema nucleare iraniano.” Il ruolo della Russia a livello internazionale è diventato particolarmente importate dopo la risoluzione della recente crisi siriana dove proprio Putin, con la sua opera di mediazione, è stato senza dubbio il vincitore.

Con arguzia politica il Presidente ha sottolineato che i successi della Russia sono comunque frutto del “lavoro congiunto con gli amici americani, europei e cinesi ai quali siamo molto grati”.

Poi arrivano le stoccate più interessanti contro il “pensiero unico occidentale”. La prima è rivolta agli ambientalisti, con riferimento al recente fatto degli attivisti di Greenpeace arrestati dopo l’assalto alla piattaforma Gazprom nel mare Artico. “Nutro un atteggiamento positivo nei confronti dei difensori della natura – ha detto – ma è inammissibile fare di loro uno strumento delle pubbliche relazioni.”

L’affondo più importante però, dal punto di vista della guerra culturale in corso, è stato questo: “Non ho intenzione di criticare i valori occidentali, per me è importante proteggere i cittadini della Russia dal comportamento abbastanza aggressivo di alcuni gruppi sociali i quali, secondo me, si comportano non solo come vogliono, ma impongono la loro posizione agli altri”

Saranno fischiate le orecchie a molti in occidente, in particolare a quei “gruppi sociali” che sembrano voler riscrivere la natura umana seguendo le cosiddette teorie del gender.

“La Russia – ha concluso Putin – è un Paese con un’antica e profonda cultura. Dobbiamo prestare attenzione ai valori tradizionali russi, senza i quali la società degrada, dobbiamo ritornarci e su questa base andare avanti. E’ un approccio conservativo, ma non impedisce lo sviluppo.”

L’orso russo si è risvegliato. E ruggisce anche per noi che sonnecchiamo. (La Voce di Romagna, 20/12/2013

RICONOSCERE I MIRACOLI QUOTIDIANI

Standard

 

Madonna di Foligno, Raffaello
 
Tu pastore d’Israele ascolta, 
tu che assiso sui cherubini rifulgi. (Sal 79,2)
 
Ci sono documenti storici che celebrano nei secoli la professione di fede del salmista, di fronte ai quali anche le opere e i giorni della nostra vita chiedono di essere contanti, soppesati, passati al vaglio della fede. 
E’ il caso della cosiddetta Madonna di Foligno, ormai definitivamente attribuita a Raffaello come prima opera del suo soggiorno romano.
In realtà l’attribuzione non fu accolta all’unanimità almeno fino al XIX secolo, a causa delle vicissitudini storiche della Pala che, vittima delle confische napoleoniche, ci fu restituita solo nel 1816. Ora, tuttavia, si è certi della paternità di Raffaello su quest’opera che si rivelò innovativa nella composizione e divenne paradigma, in epoca di controriforma, per le rappresentazioni sacre che dovevano adornare gli altari.
E’ davvero un’apparizione maestosa, eppure semplice, quella della Madre con divino Figlio, fra nubi in cui si celano cherubini. Il cielo turchino è attraversato da un guizzo, una lacrima rosso sangue proprio sotto l’arcobaleno, simbolo di pace: è un fulmine o un bolide che si abbatte su Foligno. Più esposta al pericolo è la grande casa del committente, Sigismondo de’ Conti, nobile personalità della Curia romana, il quale riconobbe nello scampato pericolo l’intervento diretto della Vergine Maria. Egli desiderò immortalare l’evento e lasciarlo, in perpetua memoria, all’altare maggiore della chiesa di Santa Maria in Araceli a Roma, di proprietà̀ dei Frati Minori. Ma è evidente che con questa sorta di gigantesco ex voto, il de Conti, segretario domestico di papa Giulio II della Rovere e Prefetto della Fabbrica di San Pietro, voleva additare ai posteri la via sicura della salvezza, quella che quotidianamente permette di riconoscere in Cristo il pastore di Israele. 
Oltre al committente inginocchiato in primo  piano sulla destra, ci sono altri tre personaggi, tre santi: san Girolamo, san Francesco, san Giovanni Battista.
 
San Girolamo
 
Girolamo, grande studioso della Bibbia, stende la mano sul suo protetto e guarda verso l’apparizione: ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo. Possiamo invocare nella fede solo Colui che conosciamo attraverso un attento e obbediente ascolto della Parola di Dio.
 
Giovanni Battista
 
Il Battista, dall’altra parte della tela, guarda verso l’esterno; guarda noi che siamo testimoni della fede nel Signore del buon Sigismondo. San Giovanni Battista, invocato in avvento come il più grande fra i nati di donna, è anche il santo che per primo intuisce il dono sacrificale del Cristo. Il suo grido: «Ecco l’Agnello di Dio», è un grido eucaristico che insegna ad accostarsi al Sacramento con fede viva e con la certezza di essere esauditi.
 
San Francesco
 
San Francesco, invece, patrono dei frati minori, proprietari – appunto – della Chiesa che ospitava l’opera, guardando la Vergine ci addita. Francesco intercede per noi tenendo alto, come il Battista, il fulcro della nostra fede e cioè il crocefisso.
Centrale nella pala e incorniciato dall’arcobaleno, vediamo un putto che regge un cartiglio singolarmente vuoto. Forse era destinato a contenere il motivo dell’esecuzione della pala, il rendimento di grazie per il dono ricevuto, eppure è rimasto vuoto. Ignoriamo il motivo di una tale omissione, tuttavia possiamo a ragione – per quel caso che nella fede ha il nome di provvidenza – leggere in questo un invito, anzi un impegno. 
Allo scadere del 2013, quel cartiglio vuoto ci invita a un bilancio, nel quale riconoscere i piccoli miracoli quotidiani di cui siamo spettatori e a scrivere di nostro pugno quel PGR (per grazia ricevuta), che tante volte omettiamo di attestare davanti a Dio e agli uomini. 
 Gloria Riva

CARI AMICI PRETI, NON SIAMO NOI, MA E’ DIO CHE ESAGERA CON I REGALI…

Standard

Image

Posted: 24 Dec 2013 01:07 AM PST

“Per molta gente l’oppio non è tanto stupefacente quanto un sermone pomeridiano”. Così Jonathan Swift – autore dei “Viaggi di Gulliver”, ma anche pastore protestante irlandese – iniziava una sua esilarante predica “Sul dormire in chiesa”.

Ma il libro che anni fa l’ha riproposta col titolo “La predica tormento dei fedeli”, più che castigare la distratta indolenza dei cristiani, incenerisce la pochezza dei predicatori.

 

OVVIO DEI POPOLI

 

Nel giorno di Natale, quando le chiese si riempiono di persone, i celebranti danno il meglio, o peggio, di sé. Sarebbe quella una grande occasione di annuncio (come ha ricordato di recente papa Francesco nella sua esortazione “Evangelium gaudium”). Ma come viene usata?

Joseph Ratzinger, anni fa, se ne uscì con una battuta che più o meno diceva: una prova della divinità della Chiesa sta nel fatto che la fede dei popoli sopravvive a milioni di omelie domenicali.

Certo, a scorrere i diversi autori che dicono la loro, nel libretto sopra citato, si scopre che la “predica” è da tempo vissuta come anticipo delle penitenze del Purgatorio. Già don Giuseppe De Luca scriveva: “abbiamo annoiato il mondo, noi che dovevamo svegliarlo e salvarlo”.

E lo scrittore cattolico Georges Bernanos: “Un prete che scende dal pulpito della verità con la bocca a culo di gallina, un po’ riscaldato, ma contento, non ha predicato, ma ha fatto tutt’al più le fusa”.

E François Mauriac: “Non c’è nessun posto in cui i volti sono così inespressivi come in chiesa durante le prediche”.

Ricordo che Bernanos nel “Diario di un curato di campagna” scrive: “Una cristianità non si nutre di marmellata più di quanto se ne nutra un uomo. Il buon Dio non ha scritto che noi fossimo il miele della terra, ragazzo mio, ma il sale. Ora, il nostro povero mondo rassomiglia al vecchio padre Giobbe, pieno di piaghe e di ulcere, sul suo letame. Il sale, su una pelle a vivo, è una cosa che brucia. Ma le impedisce anche di marcire.”

Tuttavia, se in tanti casi prevale la noia di un disincarnato perbenismo “politically correct”, in altri c’è un eccesso di sale che rende il piatto immangiabile. E finisce per aggiungere ustioni e dolori al povero Giobbe, già assai provato di suo.

 

REGALI

 

Accade quando i fedeli vengono investiti da invettive infuocate di improvvisati Savonarola che si sentono impegnati a castigare il mondo infame.

Questo moralismo ha una versione “progressista” e una “tradizionalista”. Nel primo caso l’uditorio sarà messo sul banco degli accusati per le sue (presunte) colpe sociali, nel secondo per le sue (presunte) colpe spirituali. Comunque sono sempre ceffoni.

In genere poi sotto Natale i predicatori moralisti di entrambe le obbedienze si trovano concordi nel martellare il povero, silente uditorio per il suo ripugnante consumismo.

Tanti buoni parroci infatti si rivolgono a noi come se fossimo nababbi spendaccioni, ribaldi che vivono di lussi superflui e viziosi che trascorrono le feste in orge e gozzoviglie.

L’invettiva “contro i regali” (ignara peraltro di quanto ha scritto Benedetto XVI sulla “cultura del dono”) è così abituale che viene ripetuta pigramente anche in anni come questo, che in realtà vede tutti al verde, alle prese con le bollette e le tasse. Altro che regali.

Se questi predicatori – che peraltro non si vestono di peli di cammello e non si nutrono di locuste come il Battista – avessero un minimo di realismo capirebbero.

Del resto, se nemmeno a Natale crescono i consumi, la crisi si aggrava. Allora serve a poco tuonare dal pulpito che tutti hanno diritto a una casa e a un lavoro…

Temi utili però per continuare a recriminare anche dopo Natale. Ma perché inveire sempre verso quei poveri cristiani che vanno a messa e già devono sudare per far quadrare i bilanci familiari? Perché metterli sul banco degli accusati quando ci pensano già lo stato e il fisco a spolparli e vessarli in mille modi?

Perché strapazzarli così anche là dove pensavano di incontrare e ascoltare un Dio che aspetta a braccia aperte i suoi figli, come un Padre pieno d’amore?

Che triste e misera cosa un simile cristianesimo. Predicatori del genere – diceva Charles Péguy – sanno solo “lamentarsi e blaterare”, sono “medici ingiuriosi che se la prendono con il malato, avvocati ingiuriosi che se la prendono con il cliente; pastori ingiuriosi che se la prendono con il gregge”.

E dire che avrebbero da dare al mondo la notizia più grande ed entusiasmante. La più consolante. Ma non se ne accorgono. O se la sono dimenticata: è il regalo che Dio ha fatto agli uomini.

Lui sì che esagera con i regali. Lui sì che sciala e ci vizia, riempiendoci di beni. Infatti il Creatore non si è accontentato di darci l’esistenza, la terra, il cielo, i mari, le montagne, le stelle, i campi di grano, l’acqua, il fuoco, la luna e il sole. Ha fatto la follia di donarci il suo stesso cuore: suo figlio Gesù. Colui che paga per tutti noi.

E’ per questo regalo impareggiabile che la gente semplice anche quest’anno varcherà la soglia della Chiesa. Per vedere il Dio bambino. Il Re che si è spogliato di tutte le sue ricchezze per fare ricchi noi. Cercano “la carezza del Nazareno”. Cercano il Bel Pastore che ha promesso consolazione a tutti gli affaticati e gli oppressi.

E’ quel Gesù che, nel villaggio di Naim, pieno di compassione per la madre che aveva perso il figlio, prima di resuscitarglielo le sussurrò: “donna, non piangere!”. Per questo è venuto sulla terra, per dire a tutti: “amico, fratello, sorella, non piangere più. E non temere. Perché io sono qui con te”.

 

CONSOLAZIONE

 

Ecco come lo annunciava papa san Leone Magno:

“Il nostro Salvatore, carissimi, oggi è nato: rallegriamoci! Non c’è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità: la causa della gioia è comune a tutti perché il nostro Signore, vincitore del peccato e della morte, non avendo trovato nessuno libero dalla colpa, è venuto per la liberazione di tutti. Esulti il santo, perché si avvicina al premio; gioisca il peccatore, perché gli è offerto il perdono; riprenda coraggio il pagano, perché è chiamato alla vita”.

Come ha scritto don Julian Carron, se si è verificato l’impossibile – cioè Dio che si è fatto uomo – più “nessuno può dirsi abbandonato, dimenticato o condannato… il Signore vuole farci capire che a Lui tutto è possibile”.

Il cambiamento della nostra vita, il cambiamento del mondo e qualunque altro miracolo.

Un maestro di fede come don Divo Barsotti diceva:

“Noi offendiamo Dio quando non chiediamo i miracoli! Noi non ci crediamo! Per questo non chiediamo. Parlo schiettamente. Guardate i santi: insistevano. Pensate a quello che diceva san Filippo Neri: ‘Noi dobbiamo costringere Dio a venire a compiere questo miracolo’. Aveva una forza che non si lasciava vincere dal fatto del silenzio di Dio, dal fatto che sembrava che Dio non ascoltasse la preghiera; insistevano fintanto che Dio non doveva piegarsi alla volontà dell’uomo”.

Poi don Divo spiegava:

“No, non è che Dio si pieghi alla volontà dell’uomo, ma Dio risponde alla preghiera  dell’uomo. Noi manchiamo contro il Signore quando non chiediamo i miracoli. Dobbiamo chiedere a Dio e non dobbiamo vergognarci di chiedergli tanto…Facciamo poche storie: non crediamo, non crediamo. Bene, non devo turbarmi, perché anche se anche avessi ammazzato, perché se anche avessi commesso un adulterio… se veramente io fossi il peggiore dei peccatori, posso io pensare che il mio peccato sia un limite alla Onnipotenza e alla Misericordia Divina?”.

Infine don Barsotti aggiungeva:

“Perché si stanca la pazienza di Dio? Perché non gli si chiede quello che noi possiamo desiderare. Se tu chiedi meno della creazione, tu vai all’Inferno, perché non chiedi quello che Lui ti dona. Lui ti dona Se Stesso. I santi chiedevano e chiedevano, fintanto che non avevano ottenuto”.

Questa sì è una Buona Notizia. L’unica grande Notizia.

 

Antonio Socci

 

Papa: in un inedito racconta quando la nonna dava fastidio al regime

Standard

di Salvatore Izzo

L’Osservatore Romano pubblica oggi un inedito di Jorge Mario Bergoglio, scritto in onore del sacerdote salesiano (amico della sua famiglia) Enrique Pozzoli, dal quale ha ricevuto il battesimo il 25 dicembre del 1936. Dal testo emergono alcuni particolari su Nonna Rosa, la mamma del padre di Papa Francesco, che ebbe grande influsso sulla sua vocazione. Il 25 gennaio 1929, Mario Bergoglio e i suoi genitori, si legge nello scritto inedito, “arrivarono sul Giulio Cesare, ma avrebbero dovuto viaggiare su una traversata precedente: con il Principessa Mafalda, che colo’ a picco”.”Lei – scrive Jorge Mario Bergoglio al salesiano che gli aveva chiesto un ricordo di don Pozzoli – non immagina quante volte ho ringraziato la divina Provvidenza! Papa’ lavorava nella Banca d’Italia a Torino e Asti. La nonna, dona Rosa Margarita Vasallo de Bergoglio (la donna che ha avuto il maggiore influsso nella mia vita) lavorava nella nascente Azione Cattolica: teneva conferenze dappertutto (sino a poco tempo fa ne avevo una, pubblicata su un volantino, che aveva tenuto a S. Severo di Asti sul tema: ‘San Giuseppe nella vita della nubile, della vedova e della sposa’)”. “Sembra – rivela nel testo il futuro Papa Francesco – che mia nonna dicesse cose che non piacevano alla politica di allora”.

Siamo nel primo decennio dell’era fascista, e l’azione delle camice nere e’ particolarmente pervasiva, tanto che ne fa le spese anche nonna Rosa. “Una volta – racconta Bergoglio nel suo scritto su don Pozzoli – le chiusero la sala dove doveva parlare, e allora lo fece per strada, salita su un tavolo. Conosceva il Beato Pier Giorgio Frassati, e lavorava insieme alla professoressa Prospera Gianasso (che ha avuto abbastanza influenza nella Azione Cattolica Italiana)”. “Ma non credo – nota Bergoglio – che la situazione politica sia stata il motivo dell’emigrazione in Argentina (nemmeno ha dovuto prendere olio di ricino). Un fratello di mio nonno era gia’ radicato a Parana’ e l’impresa gli andava bene. Vennero per aggiungersi a questa impresa di pavimentazione, azienda familiare dove lavoravano 4 dei 5 maschi Bergoglio. Papa’ era figlio unico e inizio’ a lavorarvi come contabile, muovendosi a Parana’, Santa Fe e Buenos Aires”.

Papa: cosi’ il prete amico di famiglia mi aiutò a convincerere i miei
“Era il 12 dicembre 1955. Papa’ e mamma festeggiavano 20 anni di matrimonio. La festa consistette in una Messa, solo i miei genitori e i cinque figli, nella parrocchia San Jose’ di Flores. Il celebrante sarebbe stato padre Pozzoli. Finita la Messa, papa’ invita a colazione nella pasticceria ‘La Perla de Flores’ a mezzo isolato dalla basilica. Papa’ pensava che non avrebbe accettato ma padre Pozzoli, che sapeva di cosa si sarebbe parlato, accetto’ senza esitare.
A meta’ della colazione si pone la questione”. Cosi’ il futuro Papa Francesco racconta – in un testo inedito pubblicato oggi dall’Osservatore Romano – un episodio singolare della sua giovinezza: quella volta che chiese aiuto ad un salesiano amico di famiglia per convincere i suoi a lasciarlo andare in seminario.

Siamo nel 1955, “ricordo ancora la scena”, esordisce l’allora religioso gesuita. E “Padre Pozzoli e’ intervenuto in modo decisivo con la storia della mia vocazione”. Infatti “a casa non sono convinti: erano cattolici praticanti ma preferivano che aspettassi alcuni anni, studiando all’universita’. Poiche’ capivo su chi sarebbe finito il conflitto, andai da padre Pozzoli (il salesiano amico di famiglia, che aveva battezzato Jorge Mario il 25 dicembre 1936, ndr.) e gli raccontai tutto. Esamino’ la mia vocazione. Mi disse di pregare e di lasciare tutto nelle mani di Dio. Naturalmente in casa nasce l’idea: perche’ non sentiamo padre Pozzoli? E io con la miglior faccia del mondo, dissi di si'”, confessa il futuro Papa Francesco nella memoria sul religioso italo-argentono Pozzoli conservata nell’archivio salesiano di Buenos Aires.
Nella conversazione in pasticceria, padre Pozzoli “dice che l’Universita’ va bene, ma che le cose vanno prese quando Dio vuole che si prendano. E comincia a raccontare storie diverse di vocazioni senza prendere partito e alla fine racconta la sua vocazione”. “Naturalmente – rivela l’allora padre Bergoglio – non fini’ dicendo che mi lasciassero andare in Seminario ne’ esigendo da loro una decisione”.

Ed ecco il seguito del racconto del futuro Pontefice: “Sono entrato nel Seminario nel 1956. Nell’agosto del 1957 mi viene la polmonite. Sto per morire. Poi mi operano al polmone. Padre Pozzoli mi visita durante la malattia. Durante il secondo anno di Seminario, avevo maturato la vocazione religiosa”. Cosi’, “una volta guarito, in novembre, non torno piu’ in Seminario e voglio entrare nella Compagnia. Ne parlo con padre Pozzoli, che esamina la vocazione e da’ il via libera”. (AGI)

Pubblicato tramite DraftCraft app

O Mistério do Natal

Standard

«As trevas cobriam a terra
e Ele [Jesus] veio como a Luz que brilha nas trevas,
mas as trevas não O receberam,
trouxe a luz e a paz:
a paz com o Pai do Céu,
a paz com todos os que também são filhos da luz
e filhos do Pai.»

Santa Teresa Benedita da Cruz | 1891 – 1942
O Mistério do Natal, Cap. II

Pubblicato tramite DraftCraft app

Digressione

In
questo giorno
voglio salutare tutti.
Ho nel cuore un albero
con appesi al posto delle palline
i nomi di tutti i miei amici. Quelli vicini
e quelli lontani. Quelli recenti e quelli passati. 
Coloro che vedo ogni giorno e quelli che incontro 
raramente, quelli ricordati sempre e quelli qualche volta 
dimenticati. Chi inavvertitamente mi ha fatto soffrire. Chi conosco 
profondamente e chi conosco a malapena. A chi devo tanto e a chi non
devo nulla. I miei amici umili ed i miei amici importanti. I nomi di tutti quelli 
che sono passati nella mia vita. Un albero con radici profonde in modo che
i loro nomi non vengano mai strappati dal mio cuore e ai quali l’anno
prossimo la fioritura porti speranza, amore e pace.
Vi voglio bene,
Vi auguro un
Buon Natale!

P. Pizzaballa: i bambini di Betlemme regalano i doni di Natale ai bimbi siriani

Standard

2013-12-24 Radio Vaticana

Il Natale del Signore si vive naturalmente con grande intensità in Terra Santa. A Betlemme, alle ore 23, il Patriarca Latino di Gerusalemme, Fouad Twal, farà ingresso nella Basilica della Natività per celebrare la Messa di Mezzanotte. Per una testimonianza su come si vive la Vigilia nella Terra di Gesù, Alessandro Gisotti ha intervistato padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa:
R. – Il Natale è sempre un momento molto intenso e, anche, soprattutto per chi deve preparare le cerimonie, un po’ frenetico! Al di là di questo, è un momento sicuramente importante, di preghiera, dove ci si ritrova con tutta la popolazione della Terra Santa, con tanti pellegrini, in solidarietà soprattutto con i nostri fratelli cristiani del Medio Oriente. L’atmosfera è quella di sempre: di grande gioia, di molto movimento. Non ci sono tantissimi pellegrini, ma c’è tantissima gente, che è venuta da tutte le parti del Paese.
D. – C’è qualche segno particolare, qualche aneddoto, qualche storia che può dirci, che l’ha colpita in questi giorni?
R. – Mi ha colpito vedere i bambini delle parrocchie, delle diverse parrocchie di Betlemme, che hanno voluto regalare in maniera simbolica – perché credo che tecnicamente non sia possibile – i loro giocattoli, i regali di Natale, che i bambini ricevono, ai loro fratelli di Siria. Questo è un gesto molto bello, tra poveri, perché i bambini di Betlemme non sono sicuramente i più ricchi, ed è un segno di solidarietà molto bello.
D. – Questo è anche il primo Natale di Papa Francesco e sappiamo che c’è una grande aspettativa, per questo programmato viaggio del Santo Padre in Terra Santa, il prossimo anno. Come si guarda a Papa Francesco in Terra Santa?
R. – Papa Francesco, che qui è molto popolare, è atteso, e nei discorsi di auguri, che si fanno tra le diverse istituzioni, il suo nome è risuonato molto spesso. L’attesa è già frenetica, ed anche la gioia di avere qui Papa Francesco è molto bella.
D. – Che augurio si sente di fare dalla terra di Gesù ai cristiani di tutto il mondo?
R. – Il messaggio di Natale è sempre lo stesso, è quello che ci dice anche il Vangelo: Dio, ci ha salvato nella persona di Gesù, non attraverso un gesto di forza, ma nel segno di ciò che è più lontano dalla forza della violenza, cioè la carne di un bambino. Il mio augurio è che quell’amore debole, che ha salvato il mondo, diventi anche il segno della testimonianza di tutti i cristiani in tutto il mondo.

Pubblicato tramite DraftCraft app

Nel Natale la promessa (e la sfida) di rinascita Fiducia e solidarietà, le parole in cui tradurre la speranza del Natale oggi mons. Bruno ForteALTRO DI QUESTO AUTORE (17)

Standard

L’incontro natalizio con gli ospiti degli Istituti Riuniti di Chieti, città della mia sede episcopale, era appena terminato. Le varie forme di disabilità, fisica o psichica, non avevano impedito a molti di loro di produrre un bellissimo spettacolo di canti e di danze. Intenso era stato poi il momento di preghiera vissuto insieme. Maria, una donna relativamente giovane e dal volto sereno, si è avvicinata timorosa, muovendo a fatica le gambe gonfie e pesanti, segnate dalla malattia da chi sa quanto tempo. “Padre, posso farti una domanda?”, mi ha sussurrato invitandomi a distaccarci un po’ dagli altri. “Certo”, le ho risposto, intuendo che si trattava di qualcosa di veramente importante per lei. Mi ha chiesto: “In cielo ci sono le scale?”. Ho colto il tremolio della sua voce e l’emozione del suo cuore. “In cielo”, le ho detto, “ci sono gli angeli per portarci in braccio, così da essere tutti vicini a Gesù”. Mi ha restituito uno stupendo sorriso. “Tutti”, le ho ribadito, “nessuno escluso”. L’ho lasciata felice. Dei due, quello che aveva ricevuto più luce ero senz’altro io. Poco prima, avevo detto ai cento quaranta ospiti ognuno con la sua più o meno grave disabilità: “Se Gesù dovesse nascere in questa città, sapete dove nascerebbe? Nell’Episcopio? No. In Cattedrale? No. Nel Municipio? No (e ho ammiccato al Sindaco che era presente). Gesù nascerebbe proprio qui, perché voi siete i suoi prediletti, quelli che ama in modo speciale. E se voi siete il Bambino Gesù, quanti si occupano di voi sono come il bue e l’asinello che riscaldarono il Piccolo appena nato. E i volontari che vengono a trovarvi sono come gli angeli che cantano in coro la gioia dell’amore sceso fra gli uomini”. Le lacrime spuntate sul volto di una delle ospiti, quella che più si era impegnata a cantare, mi hanno fatto capire che il messaggio era arrivato.

È il messaggio che vorrei lanciare a tutti in questo Natale, nel tempo di crisi e di sofferenza in cui ci troviamo. È l’annuncio proveniente da quella Nascita: non siamo soli, un nuovo inizio è possibile, la fiducia non deve mancarci, soprattutto se a sperare non lasciamo solo nessuno. E la sfida e la promessa di una rinascita, non solo desiderata e attesa, ma possibile, se sarà frutto dell’impegno di tutti. Fiducia e solidarietà sono allora le parole in cui vorrei tradurre la speranza del Natale oggi, in questo ormai sesto anno dalle prime avvisaglie della crisi economica mondiale. Fiducia.. è forse ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno. L’ingenuo ottimismo dei tempi delle vacche grasse, in cui il consumismo regnava sovrano e molti si avventuravano a spendere ben oltre le loro possibilità, ha ceduto il posto a un pessimismo diffuso, che a tanti appare solo doloroso realismo di fronte al vuoto creatosi nelle proprie prospettive di sostenta mento e di sviluppo. Non si tratta però solo della sfiducia di chi ha perduto il lavoro in età matura, né solo di quella dei giovani che si vedono davanti prospettive di disoccupazione galoppanti. È un clima generale di smarrimento, che ha liquidato i sogni della “affluent society” e l’ingenuità perfino irresponsabile di chi dava al mercato un’assoluta affidabilità, come se bastasse favorire il liberalismo economico più ampio per vedere fiorire il benessere di tutti. La sfiducia è anche il prezzo amaro pagato da chi ha creduto nelle promesse dell’economia virtuale della finanza, fatta passare per economia reale, quasi che i giochi speculativi di alcuni fossero capaci di produrre di per sé ricchezza, sempre più distaccandosi dalla realtà della produzione e dello scambio dei beni. La sfiducia è quella che si esprime nella disaffezione dall’impegno politico di base, come dalla militanza vissuta con passione per cause di giustizia, di pace e di promozione umana. Senza fiducia, però, non si va da nessuna parte: Natale richiama credenti e non credenti, figli e protagonisti di questa società segnata da secoli di cristianesimo, a ritrovare le ragioni della speranza. Se Dio ha avuto fiducia degli uomini, facendosi uno di noi, nessuno può sentirsi autorizzato a fare del pessimismo la misura di scelte sicure, di passi non avventati. È quanto aveva intuito cinquant’anni fa il Concilio Vaticano II, con parole che ci appaiono quanto mai profetiche e stimolanti: “Legittimamente si può pensare che il futuro della umanità sia riposto nelle mani di coloro che saranno capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza” (Costituzione sulla Chiesa nel Mondo contemporaneo “Gaudium et Spes”, n. 31).

Per “non lasciarsi rubare la speranza”, è necessario però riscoprire le ragioni della solidarietà: dalla crisi non si uscirà se non insieme. Quest’esigenza di coappartenenza e di corresponsabilità va declinata a vari livelli: nel contesto del “villaggio globale” essa si esprime nel bisogno di un nuovo ordine economico mondiale, capace di distribuire più equamente risorse e consumi. In mancanza di organismi politici transnazionali capaci di farlo, è più che mai urgente la crescita della coscienza collettiva, ispirata e educata da personalità carismatiche in grado di ricordare a tutti il primato del bene comune da promuovere e custodire. Figure come Nelson Mandela o Papa Francesco si rivelano qui decisive per stimolare la rinascita a partire dai cuori. Anche a livello locale, però, è necessario avere testimoni di speranza possibile, che non rinuncino a richiamare gli orizzonti comuni cui tendere. È ad esempio il ruolo che in Italia sta esercitando il Capo dello Stato, con altissimo senso di responsabilità, tanto più evidente se messo a confronto con l’irresponsabilità, l’egoismo di parte e il prevalere d’interessi privati in alcuni. L solidarietà va poi chiesta alle istituzioni e alle agenzie operanti nella vita sociale: se da una parte urge una riforma che faccia degli eletti in politica veramente la voce dei poveri e dei deboli, in continuo contatto con la gente del territorio che li esprime, dall’altra occorre che la scuola sia animata da vera passione educativa, che le banche non si chiudano nella difesa del maggior interesse possibile, dando credito a chi ha bisogno di aiuto per ripartire, che la società civile e la Chiesa si facciano portatrici di speranza per tutti, attraverso gesti e iniziative credibili di solidarietà vissuta, di condivisione operosa, di dialogo senza steccati.

Il Natale ci chiede insomma di credere alle possibilità contenute in una parola antica e sempre nuova, necessaria quanto l’aria che respiriamo ed esigente come tutto ciò che impegna al sacrificio e al dono di sé. E la parola di cui il Bambino nella grotta della Natività è immagine eloquente, comprensibile a tutti. Questa parola è amore: senza fiducia reciproca, senza affidamento umile e incondizionato al Dio che viene, anima della fede di chi crede, senza una solidarietà che nasca dalla gratuità di cuori capaci di donare, senza umile e generoso amore, non ci sarà rinascita. Natale chiede tutto questo a ognuno di noi, perché ci sia veramente un nuovo inizio. Se ne accoglieremo il messaggio, allora – per tornare alla domanda di Maria – anche in terra le scale non saranno più di ostacolo a nessuno…

[Pubblicato su “Il Sole 24 Ore” del 22 dicembre 2013]

Pubblicato tramite DraftCraft app